venerdì 31 agosto 2012

Ogni ginocchio si pieghi davanti a Gesù

Comunione in ginocchio o in piedi? A san Zeno (Vr) i foglietti preparati dal parroco don Brugnoli con alcune paterne raccomandazioni

Dopo aver portato ieri l'esempio di don Rigon, oggi diamo notizia di un altro sacerdote ci offre un nuovo esempio di strumento a servizio della Liturgia, in linea con il magistero di Benedetto XVI.

Vi ricordate di don Andrea Brugnoli? Il parroco di san Zeno alla Zai (Vr) che, tra altre cose, ha studiato i "4 passi" da suggerire ai suoi confratelli sacerdoti per seguire l'esempio del Santo Padre circa la distribuzione della S. Comunione in ginocchio e in bocca? (si veda qui il nostro post).
Ecco, a ulteriore completamento di quella bella iniziativa, don Andrea ha ideato un foglietto sulla S. Comunione e sui "6 passi" per accostarVisi. Molte copie di questa brochure vengono poste in fondo alla sua chiesa e vengono prese dai fedeli.

Sul foglietto il pio lettore può anche trovare risposte a domande ricorrenti: "Si può fare la Comunione ad ogni Messa?", "Comunione in bocca o in mano?", "Quali sono i frutti della Comunione?"

Noi siamo ben lieti di pubblicarne una copia (su richiesta e con autorizzazione dello stesso "ideatore", ovviamente) perché ciò possa essere utile o di ispirazione per altri sacerdoti (come negli intenti di don Andrea).
Speriamo che altri sacerdoti desiderosi di seguire il Papa, vogliano e possano prendere spunto, ed riescano ad ottenere (anche mediante questi mezzi) la stessa conversione di cuore e di disposizione d'animo che suscita don Andrea Brugnoli nei suoi parrocchiani grazie al suo esempio e alla sua pastolare: ars-orandi-ars celebrandi-ars credendi- ars vivendi.
Complimenti ancora a don Andrea.

CHI VOLESSE UNA COPIA DEL FOGLIETTO, PUO' FARNE RICHIESTA ALLA REDAZIONE DI MiL (redazione@messainlatino.it): riceverà una mail di risposta con allegato un pdf.

Roberto



venerdì 24 agosto 2012

Sant'Agostino e sant'Ambrogio

Agostino e il vescovo di Milano

L'ex nemico di Ambrogio



di mons. Inos Biffi
Nel novembre del 386 presso la villa di Cassiciacum Agostino ripensa al suo itinerario spirituale, e lo paragona a un viaggio per mare. Era partito con la giovanile lettura dell'Hortensius, dall'"amore per la filosofia" e dal proposito di dedicarsi a essa, ma il cammino si era poi snodato in una navigazione inquieta e piena di peripezie:  "Non mancarono nebbie - scrive nel De vita beata - per cui il mio navigare fu senza meta e a lungo, lo confesso, ebbi fisso lo sguardo su stelle che tramontavano nell'oceano (labentis in oceanum astra) e che mi inducevano nell'errore".

Prima l'errore, seducente e deludente, del manicheismo, col rinnegamento della fede cattolica, poi quello degli scettici, che "tennero a lungo il mio timone tra i marosi in lotta con tutti i venti", per arrivare infine a conoscere "la stella polare", a cui affidarsi (septentrionem cui me crederem) Ambrogio. La definizione è suggestiva e illuminante.

Ascoltando i discorsi del vescovo di Milano incominciò ad apparire ad Agostino la dimensione dello spirito, una nuova idea di Dio e la possibilità di un'esegesi "spirituale" della Scrittura contro le aberrazioni manichee.
Ma soprattutto l'incontro con Ambrogio significò per il travagliato retore di corte la conversione, quando, abbandonato tutto, poté, finalmente - sono le sue parole - "ricondurre la nave, sia pure tutta squassata, alla desiderata quiete (optatae tranquillitati)" (De vita beata, 1, 4).

Da Roma, era approdato a Milano nel 384. Nell'intenzione di Simmaco, il prefetto di Roma, parente e avversario di Ambrogio, l'invio del retore Agostino manicheo e ostile al cristianesimo aveva lo scopo di ostacolare l'opera dell'autorevole vescovo della città imperale. Il disegno provvidenziale era però tutt'altro. Agostino stesso, una decina d'anni dopo, nelle Confessiones rievoca quel soggiorno e quell'incontro.
"Quando il prefetto di Roma ricevette da Milano la richiesta per quella città di un maestro di retorica, con l'offerta anche del viaggio con mezzi di trasporto pubblici, proprio io brigai e proprio per il tramite di quegli ubriachi da favole manichee, da cui la partenza mi avrebbe liberato a nostra insaputa, perché, dopo avermi saggiato in una prova di dizione, il prefetto del tempo, Simmaco, m'inviasse a Milano. Qui incontrai il vescovo Ambrogio, noto a tutto il mondo come uno dei migliori, e tuo devoto servitore. In quel tempo la sua eloquenza dispensava strenuamente al popolo la sostanza del tuo frumento, la letizia del tuo olio e la sobria ebbrezza del tuo vino (salmo 44, 8). A lui ero guidato inconsapevole da te, per essere da lui guidato consapevole a te" (v, 13, 23).

Ambrogio e Agostino erano due personalità diversissime per ceto sociale, per indole, per formazione e stile di vita. Ambrogio - figlio di un eminente funzionario della prefettura di Treviri - era un alto e colto aristocratico, di famiglia cristiana enormemente ricca e dalla raffinata formazione latina e greca, come conveniva a chi apparteneva al ceto senatorio, cioè alla gens dei Valerii e degli Ambrosii, che aveva dietro di sé una tradizione di magistratura e consolati.

Era un clarissimus, diventato improvvisamente, sui quarant'anni, nel 374, vescovo della "meravigliosa" (Ausonio) Milano. Lo aveva richiesto a succedere all'ariano Aussenzio la volontà popolare:  "Il mio popolo ha chiesto a tuo padre - scriverà a Valentiniano ii - di aver me come vescovo" (Epistulae, 75, 7). Era stato, infatti, nominato col beneplacito dell'imperatore - che probabilmente si illudeva sulla sua docilità alla corte - ma, in ogni caso, contro la volontà del consularis della Liguria e dell'Aemilia, che non era neppure battezzato:  "Quanto ho resistito - egli dirà - perché non fossi ordinato vescovo!" (Epistulae, 14, 65).

Quella nomina, a cui non riuscì a sottrarsi nonostante tutti i suoi espedienti aveva indotto Ambrogio a una completa conversione. Sulla sua condotta  precedente non abbiamo "confessioni":  forse vi è un sobrio accenno nel De paenitentia, là dove, in un'ardente preghiera, accenna d'essersi dato al mondo:  "Conserva, Signore, la tua grazia, custodisci il dono che mi hai fatto, nonostante le mie ripulse. Io sapevo infatti che non ero degno di essere eletto vescovo, poiché mi ero dato a questo mondo" (ii, 8).

Con l'elezione incominciava una vita radicalmente nuova, resa visibile dalla rinuncia, a favore della Chiesa milanese, dei suoi cospicui averi e delle proprietà che possedeva fin in Africa e in Sicilia. E con la vita nuova iniziava il ministero, e anzitutto quella formazione teologica che gli era mancata e che frettolosamente attingeva soprattutto alle fonti largamente disponibili dei dottori greci, Origene, Basilio, Didimo e Filone.

Dichiarava ai suoi presbiteri:  "Strappato dai tribunali e dalle insegne delle magistrature e fatto vescovo, cominciai a insegnarvi ciò che nemmeno io avevo imparato" (De officiis, i, 1, 4).
Ma se così appariva Ambrogio ad Agostino, questi, più giovane di vent'anni, per il vescovo di Milano - che per le discussioni dialettiche non aveva alcun gusto (De fide, i, 42, 84) - non era che un oscuro maestro di retorica inviatogli da Roma per creargli disagi:  neppure Ambrogio poteva immaginare che quell'oscuro provinciale sarebbe diventato, a sua volta, uno dei più luminosi Dottori e Padri della Chiesa, dalla cui memoria e dalla cui affezione Ambrogio non si sarebbe più cancellato.

"Mi accolse come un padre - continua Agostino nelle Confessiones - e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo. Io pure presi subito ad amarlo, dapprima però non certo come maestro di verità, poiché non avevo nessuna speranza di trovarla dentro la tua Chiesa, bensì come persona che mi mostrava benevolenza. Frequentavo assiduamente le sue istruzioni pubbliche, non però mosso dalla giusta intenzione:  volevo piuttosto sincerarmi se la sua eloquenza meritava la fama di cui godeva, ovvero ne era superiore o inferiore. Stavo attento, sospeso alle sue parole, ma non m'interessavo al contenuto, anzi lo disdegnavo.
La soavità della sua parola m'incantava" (v, 13, 23). E, pure, lentamente e insensibilmente, la conversione si avvicinava.

Con Agostino dimorava a Milano anche la madre Monica, assidua frequentatrice della chiesa, dove "pendeva dalle labbra di Ambrogio". Quanto ad Ambrogio "amava mia madre a cagione della sua vita religiosissima, per cui fra le opere buone con tanto fervore spirituale frequentava la chiesa. Spesso, incontrandomi, non si tratteneva dal tesserne l'elogio e dal felicitarsi con me, che avevo una tal madre. Ignorava quale figlio aveva lei, dubbioso di tutto ciò e convinto dell'impossibilità di trovare la via della vita" (ibidem 2, 2).

Probabilmente Ambrogio non ignorava i tormenti spirituali, le passioni e la condotta disordinata di quel figlio, che tuttavia non riusciva, come avrebbe desiderato, a parlarne al vescovo:  "Non mi era possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo. Caterve di gente indaffarata, che soccorreva nell'angustia, si frapponevano tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l'alimento indispensabile, o l'anima con la lettura".

Ed ecco il grande rammarico di Agostino:  "Certo è che non mi era assolutamente possibile interrogare quel tuo santo oracolo, ossia il suo cuore, su quanto mi premeva, bensì soltanto su cose presto ascoltate. Invece le tempeste della mia anima esigevano di trovarlo disponibile a lungo, per riversarsi su di lui, ma invano. Ogni domenica lo ascoltavo mentre spiegava rettamente la parola della verità in mezzo al popolo, confermandomi sempre più nell'idea che tutti i nodi stretti dalle astute calunnie dei miei seduttori a danno dei libri divini potevano sciogliersi" (ibidem 3, 4).
Non mancava però "il lavorio della mano delicatissima e pazientissima" (vi, 5, 7) grazie alla quale il suo "cuore lentamente prendeva forma".

La lettura "delle opere dei filosofi platonici" in cui vedeva "per molti modi insinuarsi l'idea di Dio e del suo Verbo" (viii, 2, 3); la "visita a Simpliciano", anziano presbitero e neoplatonico cristiano, ricco di "grande esperienza e grande sapienza", "padre per la grazia, che aveva ricevuto da lui, del vescovo di allora Ambrogio e amato da Ambrogio proprio come un padre" l'incontro con intimi amici, una lesione polmonare e soprattutto il lavorio della grazia, fecero maturare in lui la conversione:  "Al termine delle vacanze vendemmiali avvertii i milanesi di provvedersi un altro spacciatore di parole per i loro studenti, poiché io avevo scelto di passare al tuo servizio". Trascorso, quindi l'operoso riposo in Dio "dopo la bufera del secolo" nella villa di Verecondo a Cassiciacum (ix, 3, 5) ecco il ritorno a Milano per ricevere il Battesimo.

Qui Agostino incontra una Chiesa ardente e viva. Ricorda in particolare nella Settimana Santa del 386 la resistenza di Ambrogio e dei suoi fedeli alle pretese ariane di Giustina, con la veglia prolungata a difesa della chiesa e l'uso del canto antifonato; e nel  giugno  successivo il ritrovamento e  solenne  deposizione  dei  martiri Protasio e Gervasio (ibidem, 7, 16). Agostino celebrerà un giorno anche nella sua Chiesa la loro memoria (Sermones, 286).

Ricevuto il Battesimo, era giunto per Agostino il tempo di tornare in patria. Lascia Milano nell'estate-autunno del 387. Agostino è ormai un altro:  il soggiorno a Milano, l'incontro con Ambrogio, la conversione lo hanno radicalmente trasformato.

(©L'Osservatore Romano - 28 agosto 2010)

mercoledì 8 agosto 2012

15 Agosto Solennità dell'Assunzione di Maria

Il Pancarpium Marianum

1607: regnano felicemente sui Paesi Bassi Spagnoli Alberto d’Austria e Isabella Clara Eugenia di Spagna. Strana coppia in effetti. Lui prima di sposarsi era Cardinale, Primate di Spagna, senza essere stato ordinato peraltro; lei ha passato gli ultimi vent’anni, vedova, da monaca clarissa, come Governatore dei Paesi Bassi in favore del re di Spagna. Appartenevano a grandi famiglie nobiliari con straordinari retaggi culturali : Alberto era figlio dell’imperatore Massimiliano II e di Maria d’Asburgo; Isabella era figlia di Filippo II di Spagna e di Elisabetta di Valois. Carlo V era il nonno paterno di lei e materno di lui. Nonna di Isabella era Caterina de’ Medici.
Coppia felice dicono. Certamente interessata e aperta ai grandi temi della fede, alle istanze della cultura e dell’arte. Bruxelles divenne importante snodo della cultura e della diplomazia europea.
La loro vicenda si intreccia con quella di un rinomato predicatore e scrittore: padre Giovanni David, gesuita. Questi nel 1607 pubblica un’opera in due parti dedicata alla coppia reale: Paradisum sponsi et sponsae [...] e, come seconda parte dedicata in particolare a Isabella, il Pancarpium Marianum septemplici titulorum serie distinctum [...]. 
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La finalità dell’opera viene esplicitata con chiarezza nel sottotitolo: affinché corriamo dietro il profumo della Beata Vergine e perché Cristo sia formato in noi. Imitando Maria, identificandosi con il suo percorso, ciascuno si trova a sperimentare la verità del detto evangelico che recita: “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,35). Chi crede rivive l’esperienza di Paolo: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!” (Gal 4,19). 
Nell’introduzione padre David cita anche anche la sua fonte patristica: Ambrogio di Milano. Il santo vescovo commentando l’incontro tra il Risorto e la Maddalena afferma: “Allora le disse il Signore: Maria, guardami. Quando non crede è donna, quando comincia a convertirsi è chiamata Maria, cioè riceve il nome di colei che ha partorito Cristo.  E’ infatti un’anima che spiritualmente concepisce Cristo” (De virg.; l. 3).
Ecco qualche riga introduttiva dell’autore: “Dobbiamo ora osservare che a ragione siamo chiamati non solo semplici madri della nostra vita migliore, come è dimostrato da vari passi della Scrittura, ma anche madri di Cristo e per così dire spirituali Marie. Poiché mentre ci rappresentiamo a imitazione di Cristo, secondo il significato etimologico, o ci studiamo di fare altrettanto con gli altri, noi stessi concepiamo, partoriamo, educhiamo Cristo. Infatti come nel battesimo ci siamo rivestiti di Cristo e siamo divenuti per adozione figli di Dio e fratelli di Cristo, così noi facciamo la stessa cosa in  modo nuovo con la santità di una vita e di un comportamento davvero cristiano” (citazione dal Preambolo nella traduzione di: Testi mariani del secondo millennio, a cura di Angelo Amato, Stefano De Fiores, Roma 2003, 453).
Non inventa nulla dunque padre Giovanni, inserendosi in una delle molte correnti spirituali che attraversano il cristianesimo. Eppure è tutt’altro che scontato il suo procedere rimandando continuamente a Cristo. A volte la spiritualità mariana ha preso sentieri non così chiari. L’autore invece non molla mai la presa: ogni singolo titolo mariano è sempre riferito a Cristo. Maria è donna che non ferma mai lo sguardo su di sé, rimandando sempre Oltre. 
Per introdurre a questo cammino il gesuita sceglie o inventa 50 titoli mariani, raggruppandoli in sette gruppi che identificano diverse fasi della vita spirituale:

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Ogni titolo mariano è corredato da una stampa, che non ha solo funzione estetica. Tra testo e immagine c’è un nesso strettissimo di continuo rimando reciproco. Notate come le lettere a margine del testo tornino nella stampa:

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La prima stampa del Pancarpium è del 1607. Fu un grande successo che oltre alla versione originale latina conobbe anche traduzioni in francese, tedesco e polacco. Arrivò presto anche a Brescia dato che nel 1618 la volta della chiesa era già affrescata con immagini tratte da quel testo. 
Si tratta di somiglianze quasi imbarazzanti se volessimo portare avanti una presunta originalità del Cossali, cui si devono i disegni preparatori mentre l’esecuzione fu subappaltata a un certo Stefano Viviani.
In realtà il pittore e il suo committente, padre Maurizio Luzzari, scelsero di semplificare le immagini del Pancarpium togliendo tutte le parti simboliche retrostanti la scena principale. 
L’altra rilevante operazione del Cossali e del Luzzari fu la scelta di quali titoli utilizzare, ne erano disponibili cinquanta, e in quale ordine. Su questo cercheremo di riflettere e di ricostruire dato che non abbiamo documenti che raccontino questa fase.

P.S.:  puoi leggertelo tutto, in latino, in Google Libri cliccando qui


21:02 Scritto da: fragiampaolo


domenica 5 agosto 2012

una Fides: dogmi ambrosiani....

una Fides: dogmi ambrosiani....





Qui sopra riproduciamo la foto di un avviso che si trova all'ingresso del Duomo di Milano: da notare l'affermazione categorica che "Ricevere la Santa Eucaristia sulla mano per fare la Comunione al Corpo di Cristo è stato il modo seguito da tutte le Chiese per circa mille anni": possiamo dire che il Beato Schuster oggi non avrebbe più da meravigliarsi se qualcuno gli chiedesse la differenza tra i dogmi romani e quelli ambrosiani. Comunque che un'affermazione storicamente discutibilissima sia spacciata per un'assodata certezza alla porta del Duomo di Milano o è frutto di ignoranza o di malafede. Non sappiamo che cosa augurarci che sia. Intanto gustiamo quest'articolo di Mons. Nicola Bux...

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L'uso di dare la Comunione in bocca può risalire a Gesù?

di Mons. Nicola Bux
Il Santo Padre, non solo pronunziò il noto discorso del 22 dicembre sull' interpretazione del concilio ecumenico Vaticano II, che invitava a compiere nel senso della riforma in continuità con la tradizione della Chiesa (Ecclesia semper reformanda), ma lo ha pure messo in pratica nella liturgia. In primis, facendo ricollocare il Crocifisso dinanzi a sè sull'altare, in modo che la preghiera del sacerdote e dei fedeli sia "rivolta al Signore".
Qui però, mi soffermo sulla seconda 'innovazione' di Benedetto XVI: l'amministrazione della S.Comunione ai fedeli, in ginocchio e in bocca. Dico 'innovazione', rispetto al noto indulto che in diverse nazioni consente di riceverla sulla mano.Infatti, si ritiene da non pochi, che solo nella tarda antichità-alto medioevo, la Chiesa d'Oriente e d'Occidente abbia preferito amministrarla in tal modo. Allora, Gesù ha dato la Comunione agli Apostoli sulla mano o chiedendo di prenderla con le proprie mani?
Visitando la mostra del Tintoretto a Roma, ho osservato alcune 'Ultime Cene' in cui Gesù dà la Comunione in bocca agli Apostoli: si potrebbe pensare che si tratti di una interpretazione del pittore ex post, un po' come la postura di Gesù e degli apostoli a tavola nel Cenacolo di Leonardo, che 'aggiorna' alla maniera occidentale l'uso giudaico dello stare invece reclinati a mensa. Però, riflettendo ulteriormente, l'uso di dare la S.Comunione direttamente in bocca al fedele, può essere ritenuto non solo di tradizione giudaica e quindi apostolica, ma anche risalente al Signore Gesù. Gli ebrei e gli orientali in genere, avevano ed hanno ancor oggi l'usanza di prendere il cibo con le mani e di metterlo direttamente in bocca all'amata o all'amico. Anche in occidente lo si fa tra innamorati e da parte della mamma verso il piccolo ancora inesperto.Si capisce così il testo di Giovanni 13,26-27: "Gesù allora gli (a Giovanni) rispose: 'E' quello a cui darò un pezzetto di pane intinto'. Poi, intinto un pezzetto di pane, lo diede a Giuda di Simone Iscariota. E appena preso il boccone il satana entrò da lui". Mons.Athanasius Schneider ha compiuto ottimi approfondimenti nel suo libro Dominus est, Lev 2009.
Che dire però dell'invito di Gesù: "Prendete e mangiate"..."Prendete e bevete" ?
Prendete (in greco: lavete; in latino: accipite), significa anche "ricevete". Se il boccone è intinto, non lo si può prendere con le mani, ma ricevere direttamente in bocca. Vero è che Gesù ha consacrato separatamente pane e vino, ma, se durante il Mistico Convito - come lo chiama l'Oriente - ossia l'Ultima Cena, i due gesti consacratori avvennero, come sembra, in tempi diversi della Cena pasquale - quando gli Apostoli, forse aiutati dai sacerdoti giudaici che si erano convertiti (Atti 6,7) quali esperti diremmo così nel culto, li unirono all'interno della grande preghiera eucaristica - la distribuzione del pane e del vino consacrati fu collocata dopo l'anafora, dando origine al rito di Comunione. Agli inizi, le comunità cristiane erano piccole e i fedeli facilmente identificabili. Con l'estendersi della cristianità, nacquero le esigenze di precauzione: affinchè le sacre specie fossero amministrate con riverenza e evitando la dispersione dei frammenti, che contengono il Signore realmente e interamente. Pian piano prende forma la Comunione sotto le due specie, date consecutivamente o per intinzione.
Infine in occidente, ordinariamente sotto la sola specie del pane, perchè la dottrina cattolica, garante san Tommaso, insegna che il Signore Gesù è tutto intero in ciascuna specie (Catechismo della Chiesa Cattolica 1377).
Però, dai sostenitori della Comunione sulla mano, si fa appello a san Cirillo di Gerusalemme, il quale, chiedendo ai fedeli di fare della mano un trono al momento di ricevere la Comunione, vuol dire che consegnava la specie del pane sulla mano. Ritengo sommessamente che l'invito a disporre le mani in tal modo, possa essere inteso non al fine di riceverla in esse, ma a protenderle, anche inchinando il capo, in un unico atto di adorazione, oltre che per prevenire la caduta di frammenti. Infatti, per l'innato senso del sacro, molto forte in Oriente, si affermava sempre più la riverenza verso il Sacramento con le precauzioni nell'assumere la Comunione in bocca, per molteplici ragioni, tra cui quella di non poter garantire mani pure e in specie la salvaguardia dei frammenti. Questo nella Catechesi Mistagogica 21.
Ciò rende più comprensibile la sentenza di sant'Agostino: "nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando". Non si deve mangiare il Corpo del Signore senza averlo prima adorato. Benedetto XVI l'ha richiamata significativamente proprio nel suaccennato discorso sull'interpretazione del Vaticano II e poi nell'Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis 67.
Ancora Cirillo o i suoi successori, nella Catechesi Mistagogica 5,22, invita a "Non stendere le mani, ma in un gesto di adorazione e venerazione (tropo proskyniseos ke sevasmatos) accostati al calice del sangue di Cristo". Di modo che, l'apostolo fa proskinesis, la prostrazione o inchino fino a terra - simile alla nostra genuflessione - protendendo allo stesso tempo le mani come un trono, mentre dalla mano del Signore riceve in bocca la Comunione. Così sembra efficacemente raffigurato dal Codice purpureo di Rossano, risalente tra la fine del V e l'inizio del VI secolo d.C., un Evangelario greco miniato composto sicuramente in ambiente siriaco.
Dunque, non deve meravigliare il fatto che la tradizione pittorica orientale e occidentale,dal V al XVI secolo abbia raffigurato Cristo che fa la Comunione agli apostoli direttamente sulla bocca.
Il Santo Padre, in continuità con la tradizione universale della Chiesa, ha ripreso il gesto. Perchè non imitarlo? Ne guadagnerà la fede e la devozione di molti verso il Sacramento della Presenza, specialmente in un tempo dissacratorio come quello odierno.
tratto da: http://www.scuolaecclesiamater.org/2012/07/luso-di-dare-la-comunione-in-bocca-puo.html