venerdì 24 agosto 2012

Sant'Agostino e sant'Ambrogio

Agostino e il vescovo di Milano

L'ex nemico di Ambrogio



di mons. Inos Biffi
Nel novembre del 386 presso la villa di Cassiciacum Agostino ripensa al suo itinerario spirituale, e lo paragona a un viaggio per mare. Era partito con la giovanile lettura dell'Hortensius, dall'"amore per la filosofia" e dal proposito di dedicarsi a essa, ma il cammino si era poi snodato in una navigazione inquieta e piena di peripezie:  "Non mancarono nebbie - scrive nel De vita beata - per cui il mio navigare fu senza meta e a lungo, lo confesso, ebbi fisso lo sguardo su stelle che tramontavano nell'oceano (labentis in oceanum astra) e che mi inducevano nell'errore".

Prima l'errore, seducente e deludente, del manicheismo, col rinnegamento della fede cattolica, poi quello degli scettici, che "tennero a lungo il mio timone tra i marosi in lotta con tutti i venti", per arrivare infine a conoscere "la stella polare", a cui affidarsi (septentrionem cui me crederem) Ambrogio. La definizione è suggestiva e illuminante.

Ascoltando i discorsi del vescovo di Milano incominciò ad apparire ad Agostino la dimensione dello spirito, una nuova idea di Dio e la possibilità di un'esegesi "spirituale" della Scrittura contro le aberrazioni manichee.
Ma soprattutto l'incontro con Ambrogio significò per il travagliato retore di corte la conversione, quando, abbandonato tutto, poté, finalmente - sono le sue parole - "ricondurre la nave, sia pure tutta squassata, alla desiderata quiete (optatae tranquillitati)" (De vita beata, 1, 4).

Da Roma, era approdato a Milano nel 384. Nell'intenzione di Simmaco, il prefetto di Roma, parente e avversario di Ambrogio, l'invio del retore Agostino manicheo e ostile al cristianesimo aveva lo scopo di ostacolare l'opera dell'autorevole vescovo della città imperale. Il disegno provvidenziale era però tutt'altro. Agostino stesso, una decina d'anni dopo, nelle Confessiones rievoca quel soggiorno e quell'incontro.
"Quando il prefetto di Roma ricevette da Milano la richiesta per quella città di un maestro di retorica, con l'offerta anche del viaggio con mezzi di trasporto pubblici, proprio io brigai e proprio per il tramite di quegli ubriachi da favole manichee, da cui la partenza mi avrebbe liberato a nostra insaputa, perché, dopo avermi saggiato in una prova di dizione, il prefetto del tempo, Simmaco, m'inviasse a Milano. Qui incontrai il vescovo Ambrogio, noto a tutto il mondo come uno dei migliori, e tuo devoto servitore. In quel tempo la sua eloquenza dispensava strenuamente al popolo la sostanza del tuo frumento, la letizia del tuo olio e la sobria ebbrezza del tuo vino (salmo 44, 8). A lui ero guidato inconsapevole da te, per essere da lui guidato consapevole a te" (v, 13, 23).

Ambrogio e Agostino erano due personalità diversissime per ceto sociale, per indole, per formazione e stile di vita. Ambrogio - figlio di un eminente funzionario della prefettura di Treviri - era un alto e colto aristocratico, di famiglia cristiana enormemente ricca e dalla raffinata formazione latina e greca, come conveniva a chi apparteneva al ceto senatorio, cioè alla gens dei Valerii e degli Ambrosii, che aveva dietro di sé una tradizione di magistratura e consolati.

Era un clarissimus, diventato improvvisamente, sui quarant'anni, nel 374, vescovo della "meravigliosa" (Ausonio) Milano. Lo aveva richiesto a succedere all'ariano Aussenzio la volontà popolare:  "Il mio popolo ha chiesto a tuo padre - scriverà a Valentiniano ii - di aver me come vescovo" (Epistulae, 75, 7). Era stato, infatti, nominato col beneplacito dell'imperatore - che probabilmente si illudeva sulla sua docilità alla corte - ma, in ogni caso, contro la volontà del consularis della Liguria e dell'Aemilia, che non era neppure battezzato:  "Quanto ho resistito - egli dirà - perché non fossi ordinato vescovo!" (Epistulae, 14, 65).

Quella nomina, a cui non riuscì a sottrarsi nonostante tutti i suoi espedienti aveva indotto Ambrogio a una completa conversione. Sulla sua condotta  precedente non abbiamo "confessioni":  forse vi è un sobrio accenno nel De paenitentia, là dove, in un'ardente preghiera, accenna d'essersi dato al mondo:  "Conserva, Signore, la tua grazia, custodisci il dono che mi hai fatto, nonostante le mie ripulse. Io sapevo infatti che non ero degno di essere eletto vescovo, poiché mi ero dato a questo mondo" (ii, 8).

Con l'elezione incominciava una vita radicalmente nuova, resa visibile dalla rinuncia, a favore della Chiesa milanese, dei suoi cospicui averi e delle proprietà che possedeva fin in Africa e in Sicilia. E con la vita nuova iniziava il ministero, e anzitutto quella formazione teologica che gli era mancata e che frettolosamente attingeva soprattutto alle fonti largamente disponibili dei dottori greci, Origene, Basilio, Didimo e Filone.

Dichiarava ai suoi presbiteri:  "Strappato dai tribunali e dalle insegne delle magistrature e fatto vescovo, cominciai a insegnarvi ciò che nemmeno io avevo imparato" (De officiis, i, 1, 4).
Ma se così appariva Ambrogio ad Agostino, questi, più giovane di vent'anni, per il vescovo di Milano - che per le discussioni dialettiche non aveva alcun gusto (De fide, i, 42, 84) - non era che un oscuro maestro di retorica inviatogli da Roma per creargli disagi:  neppure Ambrogio poteva immaginare che quell'oscuro provinciale sarebbe diventato, a sua volta, uno dei più luminosi Dottori e Padri della Chiesa, dalla cui memoria e dalla cui affezione Ambrogio non si sarebbe più cancellato.

"Mi accolse come un padre - continua Agostino nelle Confessiones - e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo. Io pure presi subito ad amarlo, dapprima però non certo come maestro di verità, poiché non avevo nessuna speranza di trovarla dentro la tua Chiesa, bensì come persona che mi mostrava benevolenza. Frequentavo assiduamente le sue istruzioni pubbliche, non però mosso dalla giusta intenzione:  volevo piuttosto sincerarmi se la sua eloquenza meritava la fama di cui godeva, ovvero ne era superiore o inferiore. Stavo attento, sospeso alle sue parole, ma non m'interessavo al contenuto, anzi lo disdegnavo.
La soavità della sua parola m'incantava" (v, 13, 23). E, pure, lentamente e insensibilmente, la conversione si avvicinava.

Con Agostino dimorava a Milano anche la madre Monica, assidua frequentatrice della chiesa, dove "pendeva dalle labbra di Ambrogio". Quanto ad Ambrogio "amava mia madre a cagione della sua vita religiosissima, per cui fra le opere buone con tanto fervore spirituale frequentava la chiesa. Spesso, incontrandomi, non si tratteneva dal tesserne l'elogio e dal felicitarsi con me, che avevo una tal madre. Ignorava quale figlio aveva lei, dubbioso di tutto ciò e convinto dell'impossibilità di trovare la via della vita" (ibidem 2, 2).

Probabilmente Ambrogio non ignorava i tormenti spirituali, le passioni e la condotta disordinata di quel figlio, che tuttavia non riusciva, come avrebbe desiderato, a parlarne al vescovo:  "Non mi era possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo. Caterve di gente indaffarata, che soccorreva nell'angustia, si frapponevano tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l'alimento indispensabile, o l'anima con la lettura".

Ed ecco il grande rammarico di Agostino:  "Certo è che non mi era assolutamente possibile interrogare quel tuo santo oracolo, ossia il suo cuore, su quanto mi premeva, bensì soltanto su cose presto ascoltate. Invece le tempeste della mia anima esigevano di trovarlo disponibile a lungo, per riversarsi su di lui, ma invano. Ogni domenica lo ascoltavo mentre spiegava rettamente la parola della verità in mezzo al popolo, confermandomi sempre più nell'idea che tutti i nodi stretti dalle astute calunnie dei miei seduttori a danno dei libri divini potevano sciogliersi" (ibidem 3, 4).
Non mancava però "il lavorio della mano delicatissima e pazientissima" (vi, 5, 7) grazie alla quale il suo "cuore lentamente prendeva forma".

La lettura "delle opere dei filosofi platonici" in cui vedeva "per molti modi insinuarsi l'idea di Dio e del suo Verbo" (viii, 2, 3); la "visita a Simpliciano", anziano presbitero e neoplatonico cristiano, ricco di "grande esperienza e grande sapienza", "padre per la grazia, che aveva ricevuto da lui, del vescovo di allora Ambrogio e amato da Ambrogio proprio come un padre" l'incontro con intimi amici, una lesione polmonare e soprattutto il lavorio della grazia, fecero maturare in lui la conversione:  "Al termine delle vacanze vendemmiali avvertii i milanesi di provvedersi un altro spacciatore di parole per i loro studenti, poiché io avevo scelto di passare al tuo servizio". Trascorso, quindi l'operoso riposo in Dio "dopo la bufera del secolo" nella villa di Verecondo a Cassiciacum (ix, 3, 5) ecco il ritorno a Milano per ricevere il Battesimo.

Qui Agostino incontra una Chiesa ardente e viva. Ricorda in particolare nella Settimana Santa del 386 la resistenza di Ambrogio e dei suoi fedeli alle pretese ariane di Giustina, con la veglia prolungata a difesa della chiesa e l'uso del canto antifonato; e nel  giugno  successivo il ritrovamento e  solenne  deposizione  dei  martiri Protasio e Gervasio (ibidem, 7, 16). Agostino celebrerà un giorno anche nella sua Chiesa la loro memoria (Sermones, 286).

Ricevuto il Battesimo, era giunto per Agostino il tempo di tornare in patria. Lascia Milano nell'estate-autunno del 387. Agostino è ormai un altro:  il soggiorno a Milano, l'incontro con Ambrogio, la conversione lo hanno radicalmente trasformato.

(©L'Osservatore Romano - 28 agosto 2010)

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